Cass. Sez. III penale Sent. n. 1134/04

ANNO/NUMERO 200430134 SEZ. 3
SENT. 28/05/2004 DEP. 09/07/2004
PRES. Savignano G P.M. Albano A

Udienza pubblica del 28/05/2004
SENTENZA N. 1134
REGISTRO GENERALE N. 22794/2002

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SAVIGNANO Giuseppe – Presidente
Dott. PICCIALLI Luigi – Consigliere
Dott. GENTILE Mario – Consigliere
Dott. FIALE Aldo – Consigliere
Dott. NOVARESE Francesco
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
B. F., n. a __________________;
avverso la SENTENZA della Corte di Appello di Messina del 15 febbraio 2002.
Visti gli atti, la sentenza denunziata ed il ricorso;
Udita in Pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dott. NOVARESE F..
udito il Pubblico Ministero nella persona del Dott. ALBANO A. che ha concluso per: rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

B. F. ha proposto ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Messina, emessa il 15 febbraio 2002, con la quale veniva condannato per il reato di trattamento illecito dei dati personali per fini di propaganda elettorale di un elenco riservato senza il consenso, espresso o presunto, degli interessati, deducendo quali motivi l’erronea applicazione dell’art. 35 l. n. 675 del 1996 e successive modificazioni (d.l.vo n. 467 del 2001) in relazione all’art. 3 l. cit., poiché si era in presenza di un trattamento dei dati per fini esclusivamente personali senza alcuna comunicazione sistematica e diffusione, sicché non era richiesto il consenso dell’interessato, tanto più che l’utilizzazione era stata effettuata per attuare un interesse pubblico cioè quello della richiesta di voto in una campagna elettorale, la violazione dell’art. 12 l. cit. come modificato dall’art. 5 d.l.vo cit., poiché il consenso non era richiesto in quanto si trattava di perseguire un legittimo interesse del titolare senza che venissero compresi i diritti e le libertà fondamentali, la dignità o un legittimo interesse di chi doveva prestare il consenso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso appare fondato, ma solo in seguito alla normativa sopravvenuta ed in particolare all’art. 167 d.lvo n. 196 del 2003″Codice in materia di protezione dei dati personali”.
Infatti, la precedente normativa, anche dopo le modifiche introdotte con il d.l.vo n. 467 del 2001, all’art. 35 primo comma l. n. 675 del 1996, secondo quanto esattamente evidenziato nella pregevole impugnata sentenza, prevedeva un reato di pericolo presunto, aggravato dall’evento nell’ipotesi contemplata al terzo comma e caratterizzato dal dolo specifico con funzione selettiva delle varie fattispecie criminose, anche se i termini profitto e danno devono essere intesi nella massima estensione, comprendendo tutte le situazioni di pregiudizio e vantaggio anche non patrimoniale.
L’interesse protetto non è solo “strumentale” o formale cioè, in un reato di mera disobbedienza, posto a presidio della tutela penale di disposizioni civilistiche quale rimedio ordinamentale volto al riequilibrio di un interesse privato violato per l’assenza della manifestazione di volontà dei soggetti interessati o per contrasto con gli indirizzi dell’Autorità di garanzia, ma, in relazione alle differenti condotte, si atteggia diversamente con un grado differente, ma da ricondurre nel più generale profilo della riservatezza e nel quadro della nozione di trattamento intesa dall’art. 8 come ogni attività, svolta senza o con l’ausilio di mezzi elettronici oppure automatizzati, di raccolta, registrazione, organizzazione, conservazione, elaborazione, modificazione, selezione, estrazione, raffronto, utilizzo, interconnessione, blocco, comunicazione, diffusione cancellazione o distribuzione di dati personali, sicché si riferisce ad ogni attività inquadrabile nella rilevazione e nella catalogazione dei dati, in qualsiasi forma, purché produttiva di un risultato informativo coerente e significativo.
Pertanto, proprio con riferimento al dolo specifico e contrariamente a quanto sostenuto nell’impugnata sentenza, non ogni semplice irregolarità procedimentale può essere ritenuta idonea a costituire reato, poiché determina una condizione di pericolosità, giacché una simile estensione sarebbe in contrasto con gli interessi protetti della riservatezza e dell’identità personale cioè della privacy intesa nella duplice valenza positiva e negativa quale libertà di escludere l’indiscriminato accesso di terzi ai dati personali e libertà di garantire all’interessato il controllo della correttezza e non eccedenza del trattamento al fine di salvaguardare l’identità personale.
Tuttavia, esclusa la necessità della comunicazione sistematica e della diffusione, relativa ad altra condotta criminosa ex art. 20 l. cit., l’utilizzazione di dati per fini elettorali non può ritenersi effettuata per fini esclusivamente personali, ma per motivi di profitto e vantaggio, la cui sussistenza determina l’assoggettamento alle sanzioni previste dalla legge in virtù del combinato disposto degli artt. 11 e 12 l. cit., nè essere scriminata dalla lettera h bis) dell’art. 12 l. cit., come introdotta dal d.l.vo n. 467 del 2001, poiché non è prevista fra i casi individuati dall’Autorità garante e non attiene ad un interesse pubblico da libera determinazione del voto), ma privato (la ricerca di consenso personale elettorale).
La modifica più evidente apportata dal d.l.vo n. 196 del 2003 all’art. 35 l. cit. ora art. 167 consiste sul piano strutturale nella previsione nella fattispecie criminosa base dell’elemento del”nocumento” attraverso la locuzione “se dal fatto deriva nocumento”, precedentemente costituente soltanto una circostanza aggravante, sicché il delitto è stato trasformato da reato di pericolo presunto a quello di pericolo concreto con un’ulteriore maggiore tipicizzazione del danno e del profitto.
Pertanto, gli argomenti su cui appuntare l’attenzione consistono nella individuazione della nozione di “nocumento” e nella natura giuridica della locuzione, se condizione obiettiva di punibilità oppure elemento costitutivo della fattispecie, derivando da detta opzione importanti conseguenze. Per quanto concerne il caso concreto in esame potrebbe rilevarsi che non risulta contestata la circostanza aggravante di cui al terzo comma dell’art. 35 l. cit. per ritenere inutile un approfondimento della prima problematica, se non si ritenesse possibile un rinvio con finalità esplorative circa la sussistenza di altri elementi di prova da valutare (contra Cass. sez. un. 21 maggio 2003 n. 22327, Carnevale e 24 novembre 2003 n. 45276, P.G., Andreotti ed altri cui adde Cass. sez. un. 13 febbraio 2004 n. 5876, P.C. Ferazzi in proc. Bevilacqua, tutte non massimate sul punto), perché è inibito al giudice di legittimità un esame del fatto se non ai limitati fini del vizio motivazionale, che deve risultare dal testo del provvedimento o dalla mancanza assoluta di motivazione su censure svolte nell’impugnazione (cfr. Cass. sez. un. 24 novembre 2003 n. 45276 cit. rv. 226092 e 226093 conforme a Cass. sez. 6^ 1 giugno 1999 n. 6839, P.G. in proc. Menditto rv. 214307 e Cass. sez. 3^ u.p. 25 giugno 1999, p. c. Mariola c. Amati non massimata cui adde Cass. sez. 3^ 7 aprile 2004, Modi ed altro), ed insussistente la violazione del principio della correlazione fra accusa contestata e fatto ritenuto in sentenza quando episodi ulteriori o collegati con quello oggetto della contestazione siano stati addotti dall’accusa o dalla difesa ad integrazione o delucidazione di proprie istanze probatorie o in genere difensive ovvero l’imputato abbia potuto, comunque, difendersi (Cass. sez. 3^ 29 maggio 2000 n. 6228, Bellavia rv. 217015 e 217016; Cass. sez., 6^ 18 settembre 1997 n. 8417, Brescia rv. 209108 e Cass. sez. 6^ 18 maggio 1995 n. 5777, Sica rv. 201673, cui si rinvia per evitare ridondanze di trattazione).
Pertanto si accenna a detta nozione, anche perché da entrambe le decisioni dei giudici di merito come del resto avviene per tutte le inosservanze delle norme relative alla privacy potrebbe risultare un qualche “vulnus” agli interessi dei soggetti passivi.
Orbene, la nozione di nocumento, secondo l’elaborazione dottrinale già effettuata sotto il vigore della pregressa normativa per la circostanza aggravante, può essere riferita sia alla persona del soggetto i cui dati si riferiscono sia al suo patrimonio in termini di perdita patrimoniale o di mancato guadagno, derivante dalla circolazione non autorizzata di dati personali. Peraltro, l’inclusione di detto concetto nella fattispecie penale, in uno con la previsione del dolo specifico, ad avviso del collegio, sembra maggiormente tipizzare un evento di danno direttamente ed immediatamente collegabile e documentabile nei confronti di soggetti cui i dati raccolti sono riferiti, sicché deve aversi riguardo ad ipotesi concrete di “vulnus” e di discriminazioni a causa dell’intervenuta violazione della normativa richiamata nel precetto penale.
Pertanto, devono essere senza dubbio escluse le semplici violazioni formali ed irregolarità procedimentali, ma anche quelle inosservanze che producano un “vulnus” minimo all’identità personale del soggetto ed alla sua privacy come su definite sia nell’aspetto negativo sia positivo e non determinino alcun danno patrimoniale apprezzabile.
Alla luce di detta delimitazione dalle sentenze impugnate appare insussistente un nocumento individuato sotto questo profilo, perché gli interessati – denuncianti appaiono indispettiti
dall’utilizzazione a fini diversi da quelli statutari, altamente umanitari, dei propri dati personali per piegarli all’interesse personale di un singolo, che riteneva di reperire voti di preferenza per la tornata elettorale dell’elezione al Consiglio Comunale di Messina, spendendo la sua appartenenza a detta associazione, sicché, al limite, il nocumento non attiene ai singoli, ma all’immagine della benemerita istituzione, la quale ne potrebbe restare sminuita per l’appartenenza di soggetti pronti a strumentalizzare un’adesione disinteressata ed altamente solidale.
Tuttavia, anche sotto questo profilo, chi ne resta sminuito è tanto più che i dati sono stati, secondo la ricostruzione della Corte di appello, indebitamente tratti dal computer, in cui erano immessi per inviarli ad istituzioni pubbliche.
Rilevata l’assenza di un nocumento e ritenuto, quindi, non necessario un rinvio a fini esplorativi in virtù della motivazione addotta, bisogna soffermarsi sulla natura giuridica da attribuire a detta locuzione se elemento costitutivo della fattispecie oppure condizione obiettiva di punibilità.
Esula da una decisione giurisdizionale una trattazione approfondita di detta problematica, oggetto numerose monografie e di differenti orientamenti dottrinali, sicché appare opportuno sintetizzare detto discorso ed appuntare l’attenzione sulla specifica fattispecie.
Pertanto, ove si consideri la generica previsione di un nocumento, estranea dalla sfera dell’offesa, giacché il reato sarebbe configurabile come contrario all’interesse protetto della norma senza bisogno di pensarlo subordinato alla condizione richiesta, la previsione del dolo specifico di danno, rilevante solo se si dia per presupposta la natura di condizione obiettiva di punibilità del nocumento, giacché, altrimenti, sarebbe contraddittorio prevedere quale evento del reato uno dei fini perseguito dal soggetto, che, inserito nel dolo specifico, è notoriamente al di fuori della consumazione del reato, e la stessa struttura del periodo, appare preferibile la configurazione dello stesso ai sensi dell’art. 44 c.p..
Del resto la stessa nozione di “nocumento” su individuata e le ragioni ad essa sottese dimostrano come il legislatore abbia voluto”selezionare” tra le condotte che esprimono già in sè un’offesa al bene giuridico su indicato quelle che, in relazione all’aspetto soggettivo ed a quello oggettivo, assumono un significato più pregnante e non minimale.
Peraltro, l’istituto della condizione obiettiva di punibilità richiama la distinzione tra perfezione ed efficacia del reato, tra rilevanza giuridica e necessario prodursi delle conseguenze giuridiche e si connota, secondo la distinzione effettuata da un Illustre Maestro, tra condizioni intrinseche, caratterizzate dall’esigenza di meglio circoscrivere alcune ipotesi criminose, che, altrimenti, sarebbero troppo late, ed estrinseche, connotate solo dalla presenza di un fatto esterno, cui è subordinata la rilevanza penale della condotta, mentre l’inserimento della locuzione nella parte “stricto sensu” sanzionatoria del precetto ed introdotta dall’avverbio “se” sotto il profilo strutturale sembra meglio attagliarsi ad una progressione criminosa con l’interesse tutelato con la norma incriminatrice, propria delle condizioni obiettive di punibilità, in uno con ragioni di tecnica legislativa e con la volontà del legislatore di rispondere ai dubbi di legittimità costituzionale sollevati da un’incriminazione troppo lata, circoscrivendo la fattispecie ai casi in cui il bene subisca un’effettiva e tangibile lesione, dimostrata dal verificarsi del nocumento. Peraltro, ove il nocumento, nonostante i criteri ermeneutici su richiamati (sistematici, letterali, logici e storici), dovesse essere ritenuto elemento costitutivo del reato, la notevole riduzione dell’incidenza della tutela penale a causa della difficoltà di reperire l’elemento intenzionale potrebbe essere indice di una violazione della normativa comunitaria, anche se lascia arbitro il legislatore nazionale di meglio scegliere la sanzione
adeguata, ed anche di diritti fondamentali, garantiti nella Costituzione, sicché l’esegesi proposta appare quella costituzionalmente orientata.
Pertanto, l’impugnata sentenza deve essere annullata senza rinvio per essere l’imputato non punibile ex art. 167 primo comma d.l.vo n. 196 del 2003.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché l’imputato non è punibile ai sensi dell’art. 167 d.l.vo n. 196 del 2003.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 28 maggio 2004.
Depositato in Cancelleria il 9 luglio 2004

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