Meglio ripensare il sistema di tutele

di Andrea Monti – IlSole24Ore del 18 aprile 2009

La condanna pronunciata dal tribunale di Stoccolma a carico dei creatori di “The pirate bay” e del suo finanziatore – che è solo una sentenza di primo grado – considera gli imputati corresponsabili delle violazioni della legge sul diritto d’autore. Avrebbero infatti con consapevolezza agevolato gli utenti del loro servizio a trovare materiale protetto da copyright, illecitamente duplicato e condiviso. Le motivazioni della decisione non sono ancora note, ma è ragionevole pensare che il tribunale abbia deciso di condannare i gestori di pirate bay ispirandosi alla violazione del principio di neutralità che salva il fornitore di servizi internet se non interferisce nelle azioni degli utenti, principio già stabilito dall’Unione Europea (con la direttiva 31/00/CE) e recepito in Italia (con il d.lgs 70/2003). Il tribunale svedese sembra quindi avere applicato una regola ampiamente condivisa in ambito europeo e internazionale.

Più problematica è l’analisi delle questioni di merito relative al processo. Il presupposto per accertare che il gestore di un motore di ricerca è corresponsabile (in concorso) di un illecito è, innanzi tutto, la prova dell’esistenza di un comportamento illegale da parte degli utenti. E’ poi necessario dimostrare che il gestori fosse a conoscenza di questi illeciti e che li incoraggiasse.

Per quanto possa essere intuitivo che una parte dei contenuti catalogati da Pirate Bay fosse illecita, questo non implica che i suoi gestori fossero a conoscenza dell’illiceità di ogni singolo comportamento degli utenti. Dunque, il primo problema – pensando a un possibile effetto nell’ordinamento giuridico italiano – è se sia possibile configurare un concorso nel reato (o addirittura il vincolo associativo), nel caso in cui il gestore del motore di ricerca possa solo presumere l’esistenza del reato. Insomma, un conto è sapere che il singolo utente sta commettendo un’azione illecita (ed esserne corresponsabile quando la si agevola). Altra cosa è ipotizzare che una percentuale di utenti possano violare la legge, senza, tuttavia, averne una precisa evidenza.

La differenza non è irrilevante, perchè se passasse questa linea, basterebbe semplicemente dichiarare che è stato commesso un reato (senza l’accertamento da parte dell’autorità giudiziaria) per renderne corresponsabile chi presta servizi internet.

E’ anche vero che dovendo accertare prima il reato  (la messa in condivisione non autorizzata di opere protette) per poi verificare l’eventuale responsabilità del gestore del motore di ricerca renderebbe praticamente impossibile celebrare i processi. Le indagini sarebbero infatti estremamente costose e complicate, specie se dovessero poi scontrarsi con gli inevitabili problemi di cooperazione internazionale.

L’inevitabile incertezza sulla ripartizione delle responsabilità per le azioni commesse online provocata dalla sentenza svedese può rappresentare, allora, un’occasione per ripensare l’apparato di normativo a tutela della proprietà intellettuale, in modo da garantire i titolari dei diritti senza, nel contempo, pregiudicare lo sviluppo del comparto industriale che ruota attorno alla creazione e diffusione dei contenuti.

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