Andare a GPL

Linux&C n.5

Molto spesso – quasi sempre – quando si parla di sistemi Open Source l’attenzione si concentra subito sulle enormi possibilità aperte dal poter maneggiare sorgenti, saltando a piè pari l’innovazione culturale che ha reso possibile Linux, il suo passato e il nostro futuro: la GPL (http://www.opensource.it/openpress/gnu_gen_pub_lic.html). Il prerequisito per il successo di un progetto Open Source, infatti, è riuscire ad essere certi che tutti i partecipanti, ovunque nel mondo, si conformino ad un “codice di comportamento” comune. Proprio questa percezione spinse RMS a scrivere la Gnu General Public License che altro non è se non un vero e proprio atto che impone a chiunque voglia godere dei vantaggi connessi alla libera modificabilità e riproducibilità dei sorgenti, di rilasciare il proprio software sottoponendolo alla stessa regolamentazione. Se volete, la GPL è una cosa a metà fra una “catena di S. Antonio” e una vendita multilivello.

GPL e Copyright

Ma la GPL ha un qualche valore giuridico o è soltanto una “dichiarazione di principi”?

Risposta: la GPL è una cosa terribilmente seria, pienamente legale e dunque tranquillamente applicabile, enforceable – come dicono oltreoceano – nei confronti di chiunque la dovesse violare, major del software comprese.

La sua legittimazione deriva infatti proprio da quel copyright che fino all’avvento della Free Software Foundation aveva prodotto un vero e proprio esercito si software-zombie e che poteva essere utilizzato anche in modo più aperto e vitale.

Vediamo come.

Un principio essenziale del copyright è che l’autore fa quello che vuole della propria opera. Quindi può decidere liberamente se e come diffondere il software (pensate allo shareware), se e in che termini consentire il reverse-engineering, se rilasciare o meno i sorgenti.

Fino ad ora le grandi software-house hanno “interpretato” questo “potere” che deriva dalla legge in senso molto restrittivo e a volte palesemente illegale (come nel caso delle limitazioni al diritto alla copia di riserva) vietando qualsiasi impiego di un software, diverso dalla sua utilizzazione.

La genialità della GPL è stata quella di usare le stesse armi del “nemico” rivolgendogliele contro: se l’autore ha tutti i diritti sul software che ha realizzato, allora è libero di stabilire che lo si può riprodurre, modificare e ridistribuire, vincolando chiunque ci “metta le mani sopra” a fare lo stesso.

Per distinguerlo dal copy-right, Stallman ha chiamato questo approccio copyleft e lo ha posto alla base dello sviluppo di tutti gli strumenti che – a partire da GNU EMACS – si sono coordinati e raggruppati attorno a Linux.

Ma La vita del copyleft non è tutta rose e fiori, infatti abbastanza presto ci si è trovati di fronte alla necessità di alleggerire i divieti contenuti nella GPL per non frenare la creazione e la diffusione del free software e per questo venne realizzata la LGPL – Lesser GPL – che sarà oggetto di un prossimo articolo.

 

Dalla teoria alla pratica

Nel frattempo, è bene chiarire anche alcuni aspetti concreti legati, per esempio, al fatto che la GPL (come la stragrande maggioranza delle altre licenze) richiede necessariamente di essere adattata alla legge italiana.

Nella misura in cui la GPL enuncia la volontà dell’autore in relazione all’estensione e al modo in cui vengono regolati i diritti degli utenti, non richiede di essere accettata per iscritto. Si tratta di una dichiarazione unilaterale compiuta dall’autore nell’esercizio dei poteri che gli derivano dalla legge, pertanto il semplice fatto di usare, riprodurre, modificare un programma regolato dalla GPL ne implica la validità.

 

Chi paga i danni?

Meno chiara è la situazione delle varie limitazioni di garanzia ed esoneri di responsabilità (note come “clausola as is”). In questo caso infatti, non stiamo parlando di diritti dell’autore, ma di responsabilità nei confronti degli utenti. In altri termini, la questione della responsabilità dello sviluppatore per software difettoso, non ha nulla a che vedere con i suoi diritti. Infatti, copyright e copyleft possono esistere ed essere senz’altro tutelati anche senza fare lo “scaricabarile” per i danni eventualmente causati dal software.

Ne consegue quindi che l’utente, pur accettando la GPL, non è automaticamente costretto a fare lo stesso con la clausola “as is”. Che deve essere firmata separatamente quando c’e un “contraente debole” (tipicamente il consumatore) e comunque non ha un valore assoluto. In caso di colpa grave (software fatto con i piedi) o addirittura dolo (software volutamente realizzato in modo pedestre) questa clausola non si applica e tocca pagare i danni.

 

…e se non tiro fuori una lira?

Se il software oltre ad essere libero è anche gratis, le cose sono leggermente differenti. L’utente nulla paga e nulla potrebbe pretendere, specie considerando che il tipico “uomo-linux” è mediamente dotato di una certa preparazione tecnica che lo mette in grado di capire se un programma funziona oppure no. In altri termini: se un meccanico acquista un’automobile. È un po’ dura da credere che non si sia accorto di eventuali malfunzionamenti o difetti. Se questo è vero è anche vero che Linux conquista fasce di utenza meno tecnica sempre più estese, con il conseguente abbassamento del “livello tecnico medio” e il nuovo innalzamento della “soglia minima di responsabilità” nello sviluppo di un programma.

 

Un consiglio

In pratica, dunque, per chi intende rilasciare i propri software sotto GPL non è una scelta saggia affidarsi al testo originale, ma è opportuno che si doti per forza di una licenza specificamente strutturata che riprenda i principi di quella della FSF e li adatti alle necessità locali.

Ma fra il dire e il fare…

Link

http://www.gnu.org

http://www.gnu.org/copyleft/gpl.html

http://www.opensource.it/openpress/gnu_gen_pub_lic.html

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