Nomi a dominio, il Tribunale di Firenze aumenta la confusione

Interlex n.ro 139

di Andrea Monti

Con l’ordinanza del 29 giugno scorso, emanata dal Tribunale di Firenze nel procedimento cautelare Sabena vs A&A di Castellani A. si registra un’inversione di tendenza (ma una rondine non fa primavera) nell’orientamento giurisprudenziale praticamente uniforme che stabilisce l’applicabilità della legge marchi ai casi di domain grabbing.

Secondo il giudice toscano la corrispondenza marchio-dominio, non è un bene assoluto, non è un valore assoluto e, soprattutto, non è un principio positivamente sancito nel nostro ordinamento, e pertanto che la funzione del Domain name System sia quella di consentire a chiunque di raggiungere una pagina web e, in quanto mezzo operativo e tecnico-logico, non può porsi per esso un problema di violazione del marchio di impresa, della sua denominazione o dei suoi segni distintivi.

Questa decisione, pur coraggiosa, non appare condivisibile. Preliminarmente, bisogna rilevare la persistenza di alcuni equivoci culturali che paiono avere inevitabilmente condizionato la decisione finale. Non vi è dubbio si legge nel provvedimento che, in quanto genericamente attività umana, anche la produzione e presentazione di pagine o siti sul web non sfugga a regole dell’ordinamento giuridico. In altri termini, il giudicante ha tout-court equiparato l’internet al web e ai contenuti che per il tramite di questa tecnologia vengono veicolati, trascurando che ci sono altri impieghi meno “appariscenti” ma non per questo meno lesivi di situazioni giuridiche soggettive (posta elettronica, ftp etc.).

 Altro presupposto tecnicamento non corretto è considerare lo stesso domain name, traduzione in qualche modo testuale dell’IP number. Questo non è vero, perché il dominio non ha alcun tipo di corrispondenza necessitata con il numero IP, ed è proprio l’arbitrarietà con la quale viene determinato a porre problemi di tutela di posizioni giuridiche soggettive.

Altra carenza del provvedimento sta nel non aver tenuto presente che i termini della questione non sono quelli dell’equiparazione del nome a dominio con il marchio, ma quelli dell’applicabilità di una certa disciplina (la legge marchi, nel caso di specie) ad una modalità di spendita del segno distintivo.

Che è cosa ben diversa. In definitiva, il ragionamento del giudicante si basa su un assunto – anche questo non reperito nel nostro ordinamento, al meglio delle conoscenze di chi scrive – secondo il quale per un mezzo operativo e tecnico-logico, non può porsi per esso un problema di violazione del marchio di impresa, della sua denominazione o dei suoi segni distintivi.

Quasi a sancire una sorta di “immunità” della tecnologia che in nome della propria sopravvivenza sarebbe autorizzata a porsi al di fuori della legge. In una prospettiva culturalmente più ampia, forse è proprio questo orientamento il più preoccupante, specie se lo si dovesse affermare a proposito di situazioni limite come la manipolazione genetica.

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