Prime impressioni sul rapporto della “Commissione Meo”

Interlex n.ro 258

La pubblicazione dei risultati del lavoro della Commissione Meo è un evento sicuramente centrale nello sviluppo di una cultura istituzionale dell’open source. Finalmente, a quasi quattro anni dal primo invito rivolto alle Istituzioni ad affrontare il tema (vedi E’ compito delle istituzioni pubbliche liberarci dalla schiavitù elettronica, presentato al Forum per la società dell’informazione voluto dalla Presidenza del Consiglio nel “lontano” 1999) un documento ufficiale traccia una linea guida e propone strategie a un interlocutore al quale, ora più che mai, si adatta l’antica sfida: hic Rhodus, hic saltus.

Va tuttavia rilevato che, a fronte dell’innegabile sobrietà ed equilibrio che contraddistinguono il Quale “fiducia” per la sicurezza?).

Stando così le cose potrebbe essere ragionevole chiedersi quanto siano corrette delle conclusioni basate su dati incerti. Ma anche a voler superare questo argomento, rimangono perplessità di ordine generale, come l’eccessivo sbilanciamento degli estensori verso una prospettiva tecno-economica.
Già la sezione “proposte” dell’executive summary si apre con un chiaro invito a privilegiare l’aspetto del value for money e buona parte del testo si concentra su questioni tecniche (come la tediosa elencazione delle applicazioni open source attualmente disponibili, che avrebbe trovato migliore collocazione in un’appendice o in un allegato, e invece occupa intere pagine che potevano essere riservate a ulteriori approfondimenti.
Gli effetti di questa impostazione tecnicistica emergono appieno nella sezione della ricerca, che si occupa della scuola. Argomento di cui parlo con qualche cognizione, insegnando “Teoria dei sistemi informatici applicati alla didattica del diritto” nella Scuola superiore per l’insegnamento secondario delle università di Chieti e Teramo. L’esperienza fatta con i futuri docenti di diritto ed economia ha dimostrato chiaramente che la “questione” software libero nella scuola non riguarda soltanto gli insegnamenti di informatica o gli istituti tecnici. Così come ha poco o nulla a che fare con le economie di scala e il risparmio (aspetti pur importanti in una scuola povera come quella italiana).

Le future generazioni di docenti (e, sospetto, anche quelle attuali) con le quali ho avuto contatti diretti, vedono l’informatica, pardon, il computer, come uno specchietto per le allodole e un mezzo per automatizzare esami e valutazioni. Come una specie di incrocio fra un videogioco e un quiz televisivo finalizzato a “captare” l’attenzione dei discenti. E non stupisce, quindi, che alla prima lezione del mio corso praticamente tutti i partecipanti si affannano a spiegare che con gli ipertesti, le banche dati e “i powerpoint” i ragazzi si distrarrebbero di meno e imparerebbero meglio. Quasi nessuno, alla fine del ciclo didattico, mantiene questa convinzione.
Perché, come ricorda Giancarlo Livraghi in Libertà, trasparenza e compatibilità: non è solo un problema di software, “Il tema che va genericamente sotto il nome di “opensource” o “software libero” non riguarda solo i sistemi operativi o i programmi software, ma più estesamente tutti i sistemi di gestione dell’informazione e della comunicazione. Non si tratta solo del “codice sorgente” ma anche più in generale di trasparenza, compatibilità e libertà dell’informazione, del dialogo, della comunicazione in tutte le sue forme”.
Dunque si tratta di costruire – grazie all’open source – un’ecologia, meglio, una fisiologia della comunicazione e della circolazione delle idee che consentirebbe di reificare quelle idee di pluralismo e parità di condizioni di accesso ora confinate nel libro dei sogni. E destinate a rimanerci non si sa per quanto grazie a una visione “proprietaria” della didattica e della formazione.
Ma secondo la Commissione Meo l’apporto del software libero nella scuola è sostanzialmente circoscritto al settore dell’informatica e all’ottimizzazione del budget.

Un altro tema, tanto importante quanto ignorato, è quello del rapporto fra open source e garanzia dei diritti individuali, con particolare riferimento alla difesa giudiziaria. Non è – forse – argomento noto ai più, ma oggi le indagini penali nelle quali è coinvolto un sistema informatico vengono condotte praticamente solo tramite sistemi operativi e applicazioni proprietarie. In altri termini, ci troviamo di fronte a dibattimenti penali nei quali il giudice deve accettare come “prova” dati e informazioni sulla cui provenienza, generazione, analisi e valutazione non è possibile effettuare alcun riscontro (per approfondire vedi Attendibilità dei sistemi di computer forensic). Questo potrebbe sembrare un discorso troppo specialistico per essere inserito in una indagine come quella della Commissione Meo. Basta dare un’occhiata ai lavori del gruppo di ricercatori del progetto CTOSE (Cyber Tools for Online Search of Evidence), finanziato dalla Commissione Europea, per capire che non è così. Oppure, per raggiungere la stessa consapevolezza, basta difendere una persona la cui colpevolezza sarebbe dimostrata solamente (o essenzialmente) da relazioni automatizzate prodotte da software proprietari.

Particolarmente debole e generico, poi, è il discorso relativo ai formati. La cui libertà e disponibilità costituisce invece proprio la chiave di volta per realizzare una democrazia elettronica e per stimolare il mercato. Per convincersene, basta ricordare che il protocollo che manda avanti l’internet, il TCP/IP è stato sviluppato per conto del Governo statunitense e da questo “liberato” e poi imposto alle aziende. E per capire quali sono i rischi della diffusione nel settore pubblico dei formati proprietari sarebbe bastato farsi un giro nei padiglioni di Bionova 2003. La fiera italiana delle biotecnologie recentemente svoltasi a Padova, dove sono stati presentati mastodontici progetti di centralizzazione di cartelle cliniche, dati sanitari e quant’altro, senza che nessuno si fosse preso la briga di pensare alla “sopravvivenza” dell’accessibilità alle informazioni. Destinate a diventare incomprensibili con la dipartita di questo o quel fornitore di tecnologia.

Tirando le somme di questi ragionamenti in ordine sparso, alla fine, è molto forte la tentazione di considerare il Rapporto Meo un’occasione perduta.
Ma forse è una valutazione prematura che, spero, potrà essere dimostrata non rispondente al vero.

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