Da Apple un altro passo verso la costruzione del walled garden

Apple è diventata titolare di un brevetto che consente di bloccare a distanza il funzionamento della fotocamera degli Iphone. Dopo il “kill switch”, un altro passo verso la “normalizzazione” degli utenti
di Andrea Monti – PC Professionale luglio 2016

Lo US Patent 9,380,225 del 28 giugno 2016 attribuisce a Apple il diritto esclusivo su una tecnologia che consente di controllare a distanza – via raggi infrarossi – il funzionamento di una fotocamera.
Come tutti i brevetti, anche questo è descritto in modo quasi incomprensibile ma nella sostanza si capisce bene che quando l’invenzione sarà implementata, i proprietari dell’i-gadget di turno non saranno più liberi di utilizzarlo nel modo che ritengono più opportuno. E dunque, per esempio, sono ipotizzabili scenari concreti come la disabilitazione delle fotocamere in luoghi particolari come, ad esempio, i musei oppure durante concerti e manifestazioni (per la gioia di politici e padroni del copyright).
Dopo il “kill switch” (l’opzione che consente di bloccare a distanza un dispositivo), IOS si arricchirà dunque di una ulteriore funzione per il controllo a distanza (della vita) dell’utente.
Le preoccupazioni di chi vede in questo brevetto dei pericoli per la libertà di espressione e per il diritto di cronaca sono più che legittime, ma riguardano solo una delle conseguenze possibili di questa evoluzione tecnologica.
Certo, è ragionevole pensare che questo ennesimo “kill switch” possa essere utilizzato per impedire l’esecuzione di riprese indipendenti durante scontri di piazza, o per impedire che qualche fan possa portare a casa uno spezzone di un concerto o una fotografia di un’opera d’arte.
Così come è altrettano ipotizzabile che i sostenitori di questa “innovazione” si difenderanno dicendo che serve per tutelare la privacy (impedendo riprese all’insaputa degli interessati), la sicurezza (impedendo ai terroristi di comunicare fra loro in zone “calde”) e i segreti industriali. E certamente prospereranno “hack” in grado di disabilitare la funzionalità o di sfruttarla in modo diverso da come era stata inizialmente concepita, con le inevitabili cause giudiziarie per violazione di proprietà intellettuale e via discorrendo. Business as usual.
Ma, propaganda e marketing a parte, la tendenza che emerge da questa evoluzione tecnologica va analizzata in termini più estesi.
Il tema generale, infatti, è quello del ruolo del potere di chi crea tecnologie nella “normalizzazione” degli individui – nella riduzione del comportamento umano a un insieme di regole stabilite secondo logiche indipendenti dal diritto all’autodeterminazione.
Con questo, ovviamente, non intendo sostenere l’esistenza di un “complotto globale”, né che Apple sia l’ennesimo “grande fratello” che vuole pilotare la nostra esistenza, decidendo cosa possiamo e non possiamo fare.
Il fine di Apple, come quello di tutte le aziende, è semplicemente ottenere il profitto in nome del quale – nei limiti stabiliti dalla legge – tutto è consentito. Anche costruire il “walled garden”, il giardino protetto da muri invalicabili, all’interno del quale la persona, pardon il cliente, può fare ciò che vuole, basta che non scavalchi le pareti che lo separano dal resto del mondo.
Ma per raggiungere questo risultato bisogna risolvere un paradosso economico-sociale: convincere uno schiavo che in realtà è un uomo libero. Dargli la percezione che, come in Minecraft, il mondo sia illimitato, senza che possa accorgersi che i chunk di realtà stanno per finire man mano che esplora lo spazio che qualcuno ha costruito per lui. Per dirla con le parole di Caparezza in “Vengo dalla luna”: Stupido, ti riempiamo di ninnoli da subito in cambio del tuo stato di libero suddito.
Si potrebbe sostenere che non ci sia nulla di nuovo in tutto questo e che la condizione sociale nella quale siamo precipitati non riguarda solo l’informatica, perché la “legge di Caparezza” si applica in generale a qualsiasi settore nel quale si vendono beni-paradosso, che sono contemporaneamente esclusivi, ma di massa.
Certo, studi sulle conseguenze sociali del consumismo ce ne sono tanti e da tanto tempo. Ma la particolarità del “consumismo tecnologico” è quella di avere dimostrato l’inutilità della legge di fronte alla pressione provocata dalla finta libertà sbandierata dalla “innovazione tecnologica” e l’inconsapevolezza con la quale gli individui sono disposti ad abbandonare i propri diritti.
I diritti individuali sono diventati una merce di scambio nella competizione economica. Sono invocati dalle aziende (vedi il caso Apple-FBI di cui abbiamo parlato anche nell’edizione online di PC Professionale) o sono sacrificati (come nel caso dei DRM – sistemi digitali per il controllo del copyright o del brevetto “acceca-obiettivi”) a seconda della loro capacità di sostenere o meno un modello di business. Il che non è di per sé un male, a condizione però che gli utilizzatori finali di queste tecnologie siano consapevoli del prezzo che stanno pagando e che, di conseguenza, possano decidere liberamente di non imprigionarsi nella gabbia dorata.
Sempre che rimanga la possibilità, per chi lo volesse, di vivere altrove.

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