Cass. Sez. III Penale Sent. n. 5397/01

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE III PENALE

S E N T E N Z A

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Lecce, con ordinanza del 17 aprile 2001, dispose la misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di D. M., indagato per il delitto di cui all’art. 600, terzo comma, cod. pen. Per avere per via telematica attraverso internet, tramite una particolare procedura di collegamento denominata F- server, che permette nel corso di una chat di accedere a scambiare automaticamente i files esistenti sul disco rigido dell’interlocutore, distribuito e divulgato materiale fotografico avente ad oggetto minori degli anni 18, ritratti nel corso di rapporti sessuali tra loro ed adulti.

Il Tribunale del riesame di Lecce, con ordinanza del 27 aprile 2001, rigettò la richiesta di riesame confermando la misura.

L’indagato propone ricorso per cassazione deducendo: violazione dell’art. 14 della legge 269/1998; mancanza e manifesta illogicità della motivazione ai sensi dell’art. 606, primo comma, lett. e), cod. proc. pen. E dell’art. 125, terzo comma, cod. proc. pen. in relazione all’art. 14 della legge 269/ 1998.

Lamenta che fra gli atti su cui si fonda l’ordinanza genetica non sono compresi i provvedimenti autorizzativi di cui al citato art. 14, in forza dei quali l’agente della polizia postale di Reggio Calabria effettuò lo scambio di foto pornografiche con l’utenza intestata al pervenuto.

Invero, il giudice per le indagini preliminari che dispose la misura cautelare doveva essere messo nelle condizioni di valutare la legittimità dell’operato della polizia di Stato ed analogo accertamento doveva essere effettuato dal tribunale del riesame.

La carenza del provvedimento autorizzativo, del resto, rende inutilizzabile la prova illegittimante ed incostituzionalmente acquisita; violazione del 600 ter cod. pen.; mancanza e manifesta illogicità della motivazione ai sensi dell’art. 606, primo comma, lett. e), cod. proc. pen. e dell’art. 125, terzo comma, cod. proc. pen. In relazione all’art. 600 ter cod. pen., lamenta che erroneamente l’ordinanza impugnata ha assunto nella nozione di materiale pornografico anche la fotografia raffigurante due ragazzini nudi, dal momento che il nudo, in assenza di qualsivoglia rapporto sessuale in atto, rientra nel concetto di erotismo e non in quello di pornografia.

Inoltre, nella specie non è configurabile il reato ipotizzato, il quale, a differenza di quello di cui al successivo quarto comma, richiede che vi sia la divulgazione delle immagini incriminate ad un numero indeterminato di persone e non a soggetti determinati.

Nel caso in esame, le modalità con cui avvenne lo scambio di fotografie tra l’indagato e l’agente di polizia mostrano che si trattava di un colloquio privato e non di distribuzione del materiale ad un numero illimitato di soggetti.

Violazione degli artt. 272, 273, 274 cod. proc. pen., Mancanza e manifesta illogicità della motivazione ai sensi dell’art. 606, primo comma, lett. e), cod. proc. pen. e dell’art. 125, terzo comma, cod. proc. pen. In relazione agli artt. 272, 273, 274 cod. proc. pen..

Lamenta, quanto al fumus del reato, che non vi sono prove che si trattasse di foto di minori e che sul punto la motivazione del tribunale si fonda su un’inammissibile inversione dell’onere della prova.

Quanto alle esigenze cautelari osserva che l’ordinanza impugnata fa riferimento ad elementi del tutto inconsistenti, quali l’impiego di strumentazione informatica e di software, ossia ad una circostanza indispensabile per la stessa commissione del reato contestato.

Violazione dell’art. 275, secondo comma bis, cod. proc. pen.; Mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine al giudizio di prognosi negativa sulla concessione condizionale della pena.

MOTIVI DELLA DECISIONE

I fatti che hanno portato all’adozione della misura cautelare nei confronti del ricorrente si ricavano dall’ordinanza impugnata e da quelle precedenti del giudice per le indagini preliminari di Lecce e del giudice per le indagini preliminari di Reggio Calabria.

Nell’ottobre del 1999, agenti della polizia postale di Reggio Calabria iniziarono un’attività di indagine in internet alla ricerca di eventuale traffico di materiale pornografico a carattere pedofilo.

L’indagine si svolse dapprima con la verifica di siti campione (come www.xxxxxxx.com) e poi con l’individuazione di numerose liste (o gruppi) di discussione a tema specificamente pedofilo (come, alt.xxxxxx.xxxxx.xxxxxx.xxxxxx-xxxxx).

Dati questi risultati, raggiunti, così si legge nelle citate sentenze, grazie all’utilizzo di personale altamente qualificato, in data 11 aprile 2000 il pubblico ministero di Reggio Calabria autorizzò, a quanto sembrerebbe, gli agenti di polizia ad acquistare in rete materiale pornografico e ad individuare soggetti interessati allo scambio di esso.

A seguito di ciò, il 6 luglio 2000 un agente della polizia, attraverso l’uso del sistema IRC, entrò in un canale MIRC denominato fotoporno, relativo al servitore IRC- net, ed usando lo pseudonimo di Mario123 iniziò a dialogare con altri utenti, tra cui uno di nome Belfagor, il quale ad un certo punto chiese lo scambio di foto pornografiche.

L’agente entrò allora in colloquio privato con Belfagor inviandogli delle foto e ricevendone due, di cui una definita a contenuto pedopornografico e l’altra ritraente due minori nude.

Mentre l’agente, attraverso il programma Visual Route, stava rilevando l’indirizzo IP dinamico dell’interlocutore, questi gli intimò di fermarsi e poi troncò la comunicazione.

Attraverso il riscontro dei tabulati telefonici si risalì quindi all’utenza telefonica dell’odierno ricorrente, ed il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Reggio Calabria, con ordinanza del 29 marzo 2001, gli applicò misura degli arresti domiciliari, dichiarando contemporaneamente la propria incompetenza territoriale.

Il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Lecce, poi, con ordinanza del 17 aprile 2001, confermò l’applicazione della misura.

Ciò ricordato, per una migliore comprensione delle questioni, va subito osservato che il ricorso è fondato sotto diversi profili.

Per quanto concerne il primo motivo, deve rilevarsi che dinanzi al tribunale del riesame l’indagato aveva eccepito che tra gli atti tra cui si fondava l’ordinanza impositiva non erano compresi i provvedimenti autorizzativi di cui all’art. 14 della legge n. 269 del 1998, provvedimenti la cui presenza era invece necessaria perché le condotte a lui addebitate erano state accertate grazie all’impiego di personale della polizia che operava sotto copertura proprio ai sensi del citato art. 14 e che agiva proprio sulla base delle disposizioni impartite.

Il tribunale del riesame ha omesso di esaminare nel merito questa eccezione ritenendo che essa fosse del tutto irrilevante in quanto l’eventuale mancanza dei provvedimenti autorizzativi comunque non inficia ne il gravato provvedimento, né tantomeno rileva ai fini di una declaratoria di inefficacia della misura per violazione dell’art. 309, quinto comma, cod. proc. pen. In relazione all’art. 291, primo comma, cod. proc. pen..

E ciò sia per il motivo che l’attività investigativa sfociata nella richiesta misura è genericamente inquadrabile nella previsione legislativa di cui al secondo comma del richiamato art. 14 della legge 269/1998, sia per il motivo che nessuna disposizione del vigente ordinamento o elaborazione giurisprudenziale consente infatti di equiparare la disciplina delle indagini per via informatica o telematica a quella delle intercettazioni di conversazioni telefoniche o ambientali (con le note conseguenze di nullità-inutilizzabilità nel caso di assenza dei relativi decreti autorizzativi o di illegittimità del medesimi, od omessa trasmissione ex art. 309 co. 5 c.p.p.).

In altre parole il tribunale del riesame ha ritenuto irrilevante l’eccezione perché è partito dall’opinione che quand’anche le investigazioni della polizia postale si fossero svolte senza una preventiva autorizzazione dell’autorità giudiziaria ciò non avrebbe avuto nessuna conseguenza ne sulla validità delle indagini ne sulla utilizzabilità dei relativi risultati.

Questo assunto, però, non può essere condiviso.

Va premesso che l’inquadramento dell’ipotesi in esame in quella di cui al secondo comma del citato art. 14 è esatta.

Tale disposizioni prevede due diverse forme di autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria per le attività investigative dirette a contrastare l’induzione, il favoreggiamento e lo sfruttamento della prostituzione della pornografia minorili.

Il primo comma si riferisce all’attività investigativa di iniziativa della polizia giudiziaria e precisamente all’attività svolta nell’ambito di operazioni disposte dal questore o dal responsabile di livello almeno provinciale dell’organismo di appartenenza) e prevede che l’autorità giudiziaria possa autorizzare gli ufficiali di polizia giudiziaria delle strutture specializzate ivi indicate a procedere all’acquisto simulato di materiale pornografico ed alle relative attività di intermediazione, nonché a partecipare alle iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile, al solo scopo di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti in questione.

Il secondo comma, invece, si riferisce alle investigazioni dell’organo del ministero dell’interno per la sicurezza e la regolarità delle telecomunicazioni e dispone che detto organo, nell’ambito dei compiti di polizia delle telecomunicazioni, su richiesta dell’autorità giudiziaria motivata a pena di nullità, svolge le attività occorrenti per il contrasto dei delitti in questione commessi mediante l’impiego di sistemi informatici o mezzi di comunicazione telematica ovvero utilizzando reti di telecomunicazioni disponibili al pubblico e dispone altresì che a tal fine il personale addetto può utilizzare indicazioni di copertura, anche per attivare siti nelle reti, realizzare o gestire aree di comunicazione o scambio su reti o sistemi telematici, ovvero per partecipare ad essi.

Affinché ricorra l’ipotesi di cui al primo comma, quindi occorre: che l’attività investigativa sia svolta nell’ambito di operazioni disposte dal questore o dal responsabile provinciale; che l’attività sia svolta da ufficiali di polizia giudiziaria; che gli ufficiali di polizia giudiziaria appartengano alle strutture specializzate ivi indicate, ed in tal caso l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria ha ad oggetto soltanto l’acquisto simulato di materiale pornografico, le relative attività di intermediazione e la partecipazione ad iniziative turistiche.

È pertanto evidente come nella specie si esuli del tutto da questa ipotesi perché non risulta che l’operazione fu disposta dal questore o dal responsabile provinciale, perché le indagini furono condotte non da ufficiali di polizia giudiziaria ma da semplici agenti e comunque perché l’attività di indagine è consistita anche nello scambio di foto pornografiche nella rete internet con uso di nomi di copertura.

È perciò palese che si versi nell’ipotesi di cui al secondo comma, il quale richiede appunto che le investigazioni dell’organo specializzato di polizia avvengano su richiesta dell’autorità giudiziaria, motivata a pena di nullità.

La norma quindi, richiamando chiaramente le prescrizioni dell’art. 15 Cost., pone una doppia garanzia, richiedendo: che l’attività di polizia giudiziaria avvenga su richiesta dell’autorità giudiziaria; che tale richiesta sia motivata, e disponendo espressamente che la mancanza di tale richiesta motivata comporta la nullità delle indagini e dei relativi accertamenti.

Del resto, la stessa ordinanza impugnata mette in evidenza le ragioni che hanno indotto il legislatore a prevedere la richiesta deriva non solo dalla necessità di scriminare l’agente ma anche dall’esigenza di non violare la disposizione di cui all’art. 15 Cost., dato che l’attività investigativa viene svolta attraverso l’ingresso ed il monitoraggio di sistemi in cui si realizzano forme di comunicazione e nei quali quindi la libertà deve essere tutelata con idoneo provvedimento dell’autorità giudiziaria.

Sennonché, dopo questa esatta premessa, l’ordinanza impugnata osserva che la mancanza della richiesta motivata non avrebbe alcuna conseguenza perché nessuna disposizione legislativa consentirebbe di equiparare la disciplina delle indagini per via informatica o telematica (come quella in esame) a quella delle intercettazioni di conversazioni telefoniche o ambientali.

Questo assunto è però infondato sotto un duplice profilo.

Innanzitutto, invero, non è esatto che nessuna disposizione legislativa equipari i due tipi di indagini dal momento che, come giustamente rileva il ricorrente, è sufficiente ricordare in senso contrario la legge 23 dicembre 1993, n. 547, recante modificazioni alle norme del codice penale e di procedura penale in tema di criminalità informatica, che ha tra l’altro introdotto l’art. 266 bis cod proc. pen., preposto proprio alla disciplina delle intercettazioni di comunicazioni informatiche o telematiche.

In ogni modo, la questione della equiparabilità o meno della disciplina dei due tipi di indagini è irrilevante perché, per quanto riguarda le attività investigative come quella in esame, la disciplina è posta direttamente dall’art. 14 della legge 3 agosto 1998, n. 269, il quale, come si è visto, espressamente dispone che la polizia in tanto può svolgere indagini dirette a reprimere i delitti in questione mediante l’impiego di sistemi informatici o telematici o mediante l’utilizzo di reti di telecomunicazione disponibili al pubblico ed in tanto può utilizzare indicazioni di copertura, attivare siti ed aree di comunicazione o scambio e parteciparvi, soltanto in quanto tali indagini siano precedute da una richiesta motivata dell’autorità giudiziaria.

E le conseguenze sono puntualmente indicate dalla medesima disposizione, la quale stabilisce che la mancanza di richiesta e la mancanza di motivazione della stessa comporta la nullità delle indagini.

Ai sensi dell’art. 191 cod. proc. pen., poi, deriva l’inutilizzabilità, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, delle prove acquisite illegittimamente in violazione del divieto stabilito dal ricordato art. 14.

Le suesposte considerazioni, peraltro, comportano soltanto un difetto di motivazione dell’ordinanza impugnata e non anche la conseguenza che nel caso in esame le risultanze delle investigazioni debbano senz’altro ritenersi inutilizzabili.

L’indagato, infatti, ha lamentato soltanto la mancata trasmissione al tribunale del riesame dell’autorizzazione dell’autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 14 citato e non ha anche eccepito che la polizia avrebbe agito di sua iniziativa senza richiesta del pubblico ministero.

Anzi, dovrebbe ritenersi che la richiesta vi sia stata, dal momento che sia l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari del tribunale di Reggio Calabria sia quella del giudice per le indagini preliminari del tribunale di Lecce parlano di una autorizzazione del pubblico ministero, che sarebbe stata rilasciata in data 11 aprile 2000.

D’altra parte, la semplice mancata trasmissione del provvedimento di autorizzazione non è di per sè sola sufficiente a far si che in questa sede di legittimità possa essere dichiarata l’inefficacia della misura ai sensi dell’art. 309 cod. proc. pen..

Infatti, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, in sede di impugnazione dell’ordinanza cautelare, la sanzione della inefficacia della misura non scaturisce in ogni caso di incompleta trasmissione degli atti al tribunale del riesame (o d’appello), ma solo quando i detti atti, comprensivi dei decreti autorizzativi delle intercettazioni telefoniche, rimessi al giudice per le indagini preliminari nella loro interezza, pervengano al tribunale solo in parte, poiché dal coordinato disposto dei commi 5 e 10 dell’art. 309 cod. proc. pen., deriva che la perdita di efficacia del provvedimento custodiale consegue solo al caso di mancato invio al tribunale di tutti gli atti a suo tempo trasmessi al giudice per le indagini preliminari (Sez. I, 13 ottobre 1998, Chianchiano, m. 212.065; Sez. V, 7 aprile 1998, Piscioneri, m. 210.930; Sez. VI, 26 marzo 1997, Zagaria, m. 208.894; Sez. Un., 20 novembre 1996, Glicora, m. 206.955).

Ed è stato altresì affermato che la disposizione di cui all’art. 309, commi quinto e decimo, cod. proc. pen. in esame non va intesa formalisticamente, nel senso che la mancata trasmissione al tribunale del riesame di uno qualsiasi degli atti presentati al pubblico ministero al giudice per le indagini preliminari in occasione della richiesta della misura determini automaticamente l’inefficacia di quest’ultima, dovendosi escludere tale effetto quando siano stati trasmessi al giudice del riesame gli atti posti a base del provvedimento impugnato, ovvero il contenuto di essi sia integralmente ricostruibile sulla base degli atti trasmessi (Sez. III, 25 gennaio 2000, Gas, m. 216.967).

Altre decisioni hanno poi ritenuto che la rigidità della norma processuale deve trovare temperamento nel senso che la conseguenza della perdita di efficacia della misura non può essere ricollegata alla omessa o tardiva trasmissione di un atto che, ai fini della decisione del tribunale, sia manifestamente irrilevante /Sez. II, 3 ottobre 2000, Laratta, m. 217.596).

È quindi in ogni caso necessario che il giudice del merito compia tutti questi accertamenti.

Per la verità, va rilevato che l’ordinanza ha anche affermato, peraltro molto sommariamente, che si tratterebbe di un atto non utilizzato dal giudice per le indagini preliminari in sede di applicazione degli arresti domiciliari e non indispensabile per la validità dell’ordinanza genetica.

Anche tale affermazione, però, soffre di carenza di motivazione non essendo ben chiaro quale sarebbe l’atto non utilizzato dal giudice per le indagini preliminari, se quest’atto sia stato comunque trasmesso dal pubblico ministero al giudice per le indagini preliminari ovvero non gli sia mai pervenuto, se il contenuto di esso sia ricostruibile sulla base degli atti trasmessi, e per quale ragione, comunque, si tratterebbe di un atto non indispensabile per l’applicazione della misura.

È quindi evidente come in ogni caso si imponga un nuovo accertamento ed un nuovo giudizio del giudice del merito sul punto.

Per economia processuale giova esaminare sommariamente anche agli altri motivi.

Il secondo motivo è anch’esso fondato.

Dinanzi al tribunale del riesame l’indagato aveva eccepito che una delle due foto da lui inviate al suo interlocutore non poteva in alcun modo considerarsi come pornografica, in quanto ritraeva due soggetti nudi e quindi aveva semmai un semplice contenuto erotico.

Su tale accezione è ovviamente competente a decidere esclusivamente il giudice di merito.

Tuttavia, il tribunale del riesame ha totalmente omesso di esaminare l’eccezione stessa e di fornire la benchè minima motivazione in proposito sebbene, come esattamente rileva il ricorrente, la circostanza che eventualmente si tratti di una sola fotografia, anziché di due fotografie penalmente significative, non può in astratto ritenersi irrilevante in relazione alla valutazione sia delle esigenze cautelari sia delle possibilità di applicare la sospensione condizionale della pena, essendo entrambi detti profili connessi con la gravità delle condotte ipotizzate.

L’indagato aveva altresì espressamente eccepito che l’altra foto, quella a contenuto pornografico, raffigurava un rapporto sessuale con una giovane che non poteva ritenersi con sicurezza essere una minorenne.

Aveva anche rilevato che a favore della maggiore età della ragazza ritratta nella foto stava il fatto che lo scambio di foto era avvenuto in un canale MIRC denominato fotoporno, e cioè in un canale di contenuto pornografico ma non specificamente rivolto alla pedofilia e quindi era evidente che l’utente denominato Belfagor, nel chiedere lo scambio di foto, si era riferito a foto legate al tema pornografico del sito, ma non risultava assolutamente che si trattasse di foto in qualche modo attinenti a minori.

Aveva quindi concluso nel senso che l’assoluta incertezza sul fatto che si potesse trattare di una minorenne precludeva di ravvisare i gravi indizi di colpevolezza.

Il tribunale del riesame ha rigettato questa eccezione in base alla sola considerazione che il collegio non ha elementi per ritenere che i soggetti riprodotti siano adulti.

È di tutta evidenza l’erroneità e la manifesta illogicità della motivazione, che pretende di basarsi su un’inammissibile inversione dell’onere della prova, in quanto spetta all’accusa, anche in sede cautelare, fornire la prova dell’esistenza di gravi indizi di colpevolezza e quindi della sussistenza degli elementi costituitivi del reato addebitato, e non già alla difesa fornire la prova della loro inesistenza.

Spettava quindi all’accusa provare che vi erano gravi indizi che si trattasse di minorenni, e non già alla difesa provare che si trattava di maggiorenni.

Il tribunale, pertanto, avrebbe dovuto prospettare in motivazione quegli elementi che, in base al suo giudizio di merito insindacabile in questa sede se logicamente motivato, fondavano la convinzione di trovarsi di fronte ad una foto che ritraeva uno o più soggetti minorenni, e non invece ricercare gli elementi per ritenere che i soggetti stessi fossero adulti.

Ed infatti, anche l’elemento costitutivo del reato rappresentato dalla minore età del soggetto coinvolto nel rapporto sessuale doveva essere coperto dai gravi indizi di colpevolezza necessari per il mantenimento in vita del titolo coercitivo, sicchè è erroneo ed immotivato il ragionamento del tribunale di Lecce, il quale, anzichè preoccuparsi di chiarire l’iter logico che avrebbe condotto al riconoscimento della minore età e dunque alla sussistenza del delitto, ha preteso di imporre alla difesa l’onere di contrastare la apoditticità della tesi accusatoria.

Ma la motivazione dell’ordinanza impugnata appare carente sotto un altro profilo.

All’indagato è stato contestato il delitto di cui all’art. 603 ter, terzo comma, cod. pen., il quale punisce, con reclusione da uno a cinque anni e con multa da £ 5 milioni a £ 100 milioni, tra l’altro, chi, non avendo commesso uno dei fatti di cui al primo o al secondo comma, ossia non avendo sfruttato un minore degli anni diciotto al fine di realizzare esibizioni pornografiche o di produrre materiale pornografico e non avendo fatto commercio del detto materiale pornografico, con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, distribuisce, divulga o pubblicizza il materiale pornografico di cui al primo comma.

Il successivo quarto comma, invece, punisce con reclusione fino a tre anni oppure con multa da £ 3 milioni a £ 10 milioni chi consapevolmente cede ad altri, anche a titolo gratuito, materiale pornografico prodotto mediante lo sfruttamento sessuale dei minori degli anni diciotto.

Orbene, la giurisprudenza di questa Suprema Corte ha affermato che ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 600 ter, comma terzo, cod. pen. (distribuzione, divulgazione o pubblicizzazione del materiale pornografico di cui al precedente comma primo con qualsiasi mezzo, anche in via telematica), sia da una parte non basta la cessione di detto materiale a singoli soggetti, dall’altra è sufficiente che, indipendentemente dalla sussistenza o meno del fine di realizzare esibizioni pornografiche o di produrre il relativo materiale, questo venga propagato ad un numero indeterminato di destinatari (Sez. III, 14 luglio 2000, Salvalaggio, m. 216.880), e che rientrano nella fattispecie di cui all’art. 600 ter cod. pen. la divulgazione e pubblicazione, le quali richiedono sia che la condotta sia destinata a raggiungere una serie indeterminata di persone, con cui l’agente ha stabilito un rapporto di comunicazione, sia un mezzo di diffusione accessibile ad una pluralità di soggetti (Sez. III, 13 giugno 2000, Tedde, m. 2117.2114).

Non può però ritenersi che, per la sussistenza del delitto di cui al terzo comma dell’art. 600 ter, cod. pen., sia sufficiente, come a volte invece capita di leggere, la mera circostanza che le foto pornografiche di minori siano veicolate attraverso la rete internet, a parte che non si comprende che cosa si intenda con tale espressione, data la sua vaghezza.

Così, il delitto in esame è certamente configurabile qualora il soggetto, ad esempio, inserisca le foto pornografiche minorili in un sito accessibile a tutti ovvero quando le propaghi attraverso usenet, inviandole ad un gruppo o lista di successione, da cui chiunque le possa scaricare.

Al converso, pare ipotizzabile non il delitto in esame, ma quello più lieve di cui al quarto comma, quando, ad esempio, il soggetto invii la foto ad una persona determinata allegandola ad un messaggio di posta elettronica.

E nemmeno sembra significativo, per la configurabilità del reato in questione, limitarsi a rilevare che la cessione delle foto è avvenuta attraverso un programma o stanza o canale di discussione (in inglese, chat line) del tipo IRC, come quello utilizzato nella specie, o similari, dovendosi invece distinguere l’ipotesi in cui si sia trattato di una sola isolata cessione avvenuta nel corso di una discussione privata con una singola determinata persona, di modo che la foto sia stata di fatto ceduta ad una sola persona e solo questa abbia avuto la possibilità di prelevarla, dall’ipotesi in cui invece la foto sia stata ceduta in un canale aperto a tutti gli utenti, di modo che qualsiasi soggetto si trovi nella stanza o nel canale abbia avuto la possibilità di prelevarla, oppure sia stata ceduta comunque ad una pluralità di soggetti sia pure attraverso una serie di diverse conversazioni private.

Ed infatti, nella specie, il capo di imputazione non si limita a contestare all’indagato di aver ceduto le foto nel corso di una discussione in un canale IRC, ma gli contesta di averle distribuite e divulgate effettuando la cessione tramite una particolare procedura di collegamento che permette nel corso di una discussione di accedere e scambiare direttamente i documenti esistenti sul disco rigido di un interlocutore.

E, se così fosse, sarebbe senz’altro ipotizzabile il delitto di cui al terzo comma dell’art. 600 ter cod. proc. pen..

Deve invero ritenersi che si realizza una distribuzione o divulgazione delle foto pornografiche ad una serie indeterminata di persone anche quando la loro cessione avvenga attraverso programmi (come, ad esempio, Napster nel caso di archivi musicali ovvero uno dei tanti programmi similari che si basano sullo stesso o su analogo principio di scambio dei documenti) che permettono a chi li utilizzi e sia collegato in quel momento e in quella particolare rete la condivisione di cartelle, archivi e documenti.

Se infatti il soggetto, attraverso l’uso di un programma e di una rete del genere, condivide con gli altri utenti le foto pornografiche registrate sul suo disco rigido o in un altro supporto, nel senso che mette a disposizione di tutti la parte del suo disco rigido o di altra memoria di massa dove sono contenute le foto pornografiche minorili in modo che chiunque possa accedere alle cartelle condivise e prelevare direttamente le foto, è evidente che è configurabile un’ipotesi di distribuzione e divulgazione ad un numero indeterminato di persone.

Ora, su questo aspetto, essenziale per la configurabilità del reato ipotizzato, la motivazione dell’ordinanza impugnata in parte è manifestamente illogica e contraddittoria ed in parte manca, non avendo invero il tribunale risposto alle eccezioni che in proposito l’indagato aveva avanzato con memoria difensiva.

Il tribunale del riesame, infatti, ha ritenuto esatta la qualificazione giuridica del fatto soltanto sulla base della considerazione che ai fini della sussistenza di tale reato è sufficiente che il materiale pedo-pornografico venga propagato ad un numero indeterminato di destinatari, come appunto si verifica nel caso in cui tale cessione venga effettuata mediante l’uso di una chat-line, e quindi attraverso la rete internet attesa la possibilità di un qualunque ignoto utente interessato (dotato di adeguata strumentazione) di partecipare alla chat.

È chiaro come questa motivazione sia non solo erronea, come dinanzi osservato, ma anche totalmente elusiva, per la sua genericità, delle puntuali osservazioni avanzate dalla difesa e comunque manifestamente illogica, perché contrastante con elementi fattuali che emergono dallo stesso testo del provvedimento impugnato.

Innanzitutto, infatti, è pacifico che vi fù un unico collegamento, intervenuto il 6 luglio 2000, tra gli agenti di polizia giudiziaria e l’utenza del ricorrente.

In ogni caso, dall’originaria ordinanza cautelare del giudice per le indagini preliminari del ,tribunale di Reggio Calabria risulta che, dopo un primo contatto in una stanza di discussione, l’agente di polizia entrò in colloquio privato con l’indagato, inviandogli delle foto e ricevendo le due foto in questione.

Nella medesima ordinanza si legge poi che è particolare degno di menzione…che mentre il personale operante, tramite il programma Visual Route, stava rilevando l’indirizzo IP dinamico, l’interlocutore intimava di fermarsi, e poi troncava la comunicazione, segno evidente che lo stesso fosse in possesso di software idoneo a controllare l’accesso alle porte del proprio F-.server.

Inoltre, l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari del tribunale di Lecce afferma espressamente che il 6 luglio 2000 l’agente di polizia postale riuscì ad entrare in contatto con Belfagor, e cioè ad instaurare un rapporto diretto con l’indagato, e che fu proprio Belfagor che permise l’ingresso nella memoria del proprio server ed il trasferimento in favore dell’agente di polizia delle due fotografie.

Il difensore aveva espressamente osservato che tali circostanze non solo che l’indagato aveva semmai ceduto le foto nel corso di un colloquio privato ma anche che egli era capace di interdire l’accesso alle porte del proprio elaboratore a terzi estranei, così come in effetti lo interdì immediatamente nel momento in cui l’agente a cui aveva ceduto le foto provò ad entrarvi senza il suo consenso.

Aveva quindi dedotto la difesa che per l’odierno ricorrente non potevano valere le osservazioni riferite ad altri coindagati, perché il ricorrente non aveva mai permesso l’indiscriminato accesso al disco rigido del suo elaboratore e lo scambio continuo degli archivi e quindi non aveva mai determinato la distribuzione o la divulgazione delle foto ad un numero illimitato, indeterminato ed indeterminabile di soggetti, ed anzi era in possesso di programmi idonei a controllare l’accesso alle proprie porte, di modo che nessuno poteva accedervi direttamente e senza il suo consenso ed egli era in grado di cedere a quel singolo determinato interlocutore unicamente il materiale predeterminato da lui voluto, senza alcuna possibilità di scaricare la restante documentazione presente sul disco rigido.

Orbene, il tribunale di Lecce ha totalmente omesso di considerare le suddette circostanze indicate dalla difesa, sebbene le stesse fossero certamente rilevanti perché astrattamente idonee ad incidere sulla qualificazione giuridica del fatto e perché la eventuale configurabilità del delitto di cui al quarto comma dell’art. 600 ter cod. proc. pen. al posto di quello contestato avrebbe escluso la possibilità di mantenere il vincolo cautelare, per carenza del presupposto costituito dal limite edittale della pena in astratto comminata.

È comunque manifestamente illogica l’affermazione che il possesso di un software idoneo a controllare l’accesso alle proprie porte sia indizio non già di selezione negli accessi bensì di accesso indiscriminato da parte di terzi ai propri documenti.

La motivazione dell’ordinanza impugnata è infine carente anche sotto un ulteriore profilo.

L’indagato aveva infatti prospettato al tribunale del riesame una serie di considerazioni che indicevano a ritenere che con la sentenza potesse essere concessa la sospensione condizionale della pena, con conseguente impossibilità di disporre la misura della custodia cautelare ai sensi dell’art. 275, secondo comma bis, cod. proc. pen., osservando in particolare che il delitto contestato è punito con la reclusione da uno a cinque anni; che egli era del tutto incensurato; che vi era stato un solo episodio di cessione di una sola foto a contenuto pornografico; che il rapporto sessuale raffigurato da tale foto non interessava certamente una bambina ma tutt’al più una ragazza costituzionalmente sviluppata; che egli era assente da altre indagini precedenti e successive; che la condotta contestata era ormai lontana nel tempo.

Orbene, il tribunale di Lecce ha completamente omesso di prendere in considerazione anche tali osservazioni e di motivare al riguardo, limitandosi alla apodittica affermazione di non avere elementi in base ai quali formulare una prognosi di concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, ne essendo indicativo a tal fine il pregresso stato formale di incensuratezza.

Anche senza voler sottolineare anche in questo caso l’inammissibile inversione dell’onere della prova, non essendo spiegato perché lo stato di incensuratezza sarebbe formale, e comunque perché non sarebbe significativo, è evidente la totale mancanza di motivazione.

L’ordinanza impugnata deve pertanto essere annullata con rinvio per nuovo giudizio al tribunale di Lecce, che si uniformerà ai principi di diritto enunciati.

PQM

La Corte Suprema di Cassazione annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Lecce.

Roma, 3 dicembre 2001

Depositato in Cancelleria

11 febbraio 2002

 

Da www.penale.it

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