Inviare e-mail fastidiose non è reato

di Andrea Monti – PC Professionale n. 233 agosto 2010
Dalla Corte di cassazione una sentenza che rende penalmente non punibile l’invio di mail fastidiose. Il rischio è la legalizzazione dello SPAM

La Corte di cassazione, con la sentenza n. 2451/2010 del 17 giugno 2010 ha stabilito che l’art. 660 del codice penale (molestia o disturbo alle persone anche con il mezzo del telefono) non vale per la posta elettronica. Questo, secondo la Corte, perché a differenza di una telefonata o di un SMS, una e-mail non è “intrusiva ma rimane sul computer in attesa di essere letta se e quando il destinatario vorrà farlo.

Il ragionamento della sentenza è solo parzialmente condivisibile perchè si basa su un presupposto – la non invasività della posta elettronica – che non è sempre configurabile (come, ad esempio, nel caso di smartphone che ricevono le comunicazioni via push). Sarebbe stato quindi più corretto scrivere che l’invio di messaggi non desiderati (e per di più, come dice la legge, animati da petulanza o da altro biasimevole motivo) possano essere considerati illeciti in funzione della tecnologia utilizzata dal destinatario per ricevere la corrispondenza.

Ma vediamo con quali passaggi la Corte di cassazione è arrivata a concludere che non è possibile molestare via e-mail.

Bisogna innanzi tutto partire da un presupposto: l’art. 660 del Codice penale è una norma “aperta”, nel senso che invece di fare l’elenco dettagliato dei modi con i quali si può molestare una persona, utilizza un approccio più intelligente concentrandosi sul motivo (petulanza o altre biasimevoli ragioni) e lasciando al giudice il compito di verificare, caso per caso, se lo specifico strumento tecnologico utilizzato per commettere il fatto possa essere qualificato o no come strumento di comunicazione a distanza. Da qui, la Corte è partita nel suo percorso argomentativo.

In primo luogo, la sentenza esclude che la nozione di fatto commesso “con il mezzo del telefono” contenuta nell’art. 660 del Codice penale possa essere estesa all’e-mail. “La posta elettronica” – ritiene la Corte – “utilizza la rete telefonica e la rete cellulare delle bande di frequenza, ma non il telefono, né costituisce applicazione della telefonia che consiste, invece, nella teletrasmissione, in modalità sincrona, di voci o di suoni.” Viceversa, per quanto riguarda la mail, “La modalità della comunicazione è asincrona. L’azione del mittente si esaurisce nella memorizzazione di un documento di testo (colla possibilità di allegare immagini, suoni o sequenze audiovisive) in una determinata locazione dalla memoria dell’elaboratore del gestore del servizio, accessibile dal destinatario; mentre la comunicazione si perfeziona, se e quando il destinatario, connettendosi, a sua volta, all’elaboratore e accedendo al servizio, attivi una sessione di consultazione della propria casella di posta elettronica e proceda alla lettura del messaggio.” Dal che deriva, sempre secondo i giudici, che “l’invio di un messaggio di posta elettronica – esattamente proprio come una lettera spedita tramite il servizio postale – non comporta (a differenza della telefonata) nessuna immediata interazione tra il mittente e il destinatario, né veruna intrusione diretta del primo nella sfera delle attività del secondo.” Mentre, infatti, per sottrarsi alla molestia telefonica la vittima dell’illecito deve spegnere l’apparato (telefono, citofono) subendo così una ingiusta limitazione dei propri diritti, questo non accade nel caso della posta elettronica che “giace” inerte fino a quando non viene aperta.

Messa in questi termini, è facile capire dove sia l’errore di ragionamento nel quale è incappato il collegio di giudici.

Se è vero che la molestia si produce perchè la vittima è costretta a subire il fastidio dello squillo della telefonata, o della suoneria che avvisa dell’arrivo di un SMS, perché non dovrebbe produrre lo stesso effetto disturbatore il suono che il PC emette quando arriva un nuovo messaggio? E che differenza fa se la suoneria del cellulare avvisa della presenza di messaggio di testo, di un MMS, di una mail o ancora di un instant message? Dal punto di vista dell’utente non c’è più alcuna differenza fra i diversi canali di comunicazione dei quali si può servire e dunque la distinzione fra telefonata che da fastidio e e-mail che non crea problemi, più che tecnicamente scorretta è sociologicamente sbagliata.

In altri termini, sembra che i giudici non si siano resi conto del modo in cui è cambiata la comunicazione interpersonale grazie alla rete. Il che è evidente, in modo particolare, per un clamoroso effetto collaterale di questa decisione in relazione allo SPAM che grazie a questa sentenza è praticamente legalizzato (fatta salva la violazione della normativa sul trattamento dei dati personali).

Mentre, infatti, l’invio di e-mail sgradite potrebbe rientrare anche in altri reati (violenza privata, minacce, ingiuria), per come è scritto il codice penale nel caso della SPAM l’unico illecito configurabile sarebbe proprio quello di molestie.

A margine di questo commento, però, è bene ricordare che essere assolti dall’accusa di avere commesso un reato non significa averla “fatta franca” perché rimane sempre in piedi la possibilità, per la vittima, di richiedere un risarcimento dei danni. Certo, nel caso specifico il processo sarebbe abbastanza complesso perché essendo stata esclusa la commissione del reato spetterebbe alla vittima dover provare tutta una serie di circostanze, con particolare riferimento ai danni che avrebbe subito. E proprio questa sarebbe la cosa più complicata da fare considerato che in materia di molestie (a meno che i fatti non siano clamorosi) dare questa prova potrebbe addirittura essere impossibile.

Un’ultima considerazione. L’imputato si era difeso nel merito sostenendo che la mailbox usata per le molestie fosse stata creata da qualcun altro che aveva fornito generalità false e che dunque mancava la prova che l’indirizzo in questione fosse riferibile all’imputato stesso.

A parte l’ingenuità di una difesa del genere (sul PC della persona è stato trovato l’account correttamente configurato) la sentenza riapre involontariamente il dibattito sul ruolo degli ISP nella commissione di reati da parte degli utenti. E’ ancora accettabile che si possano creare mailbox fornendo informazioni personali false? E fino a che punto l’ISP può “lavarsi le mani” di quello che gli utenti fanno con i servizi che offre?

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